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sabato 18 settembre 2010

Afghanistan la morte del tenente Alessandro Romani


Ucciso un soldato italiano in Afghanistan
Uno o piu’ colpi di kalashnikov durante un blitz per catturare quattro ‘insorti’ che, poco prima, avevano piazzato una bomba lungo una strada.
Uno o piu’ colpi di kalashnikov durante un blitz per catturare quattro ‘insorti’ che, poco prima, avevano piazzato una bomba lungo una strada. E’ morto cosi’, nella provincia di Farah, il tenente Alessandro Romani, 36 anni, romano, ufficiale del 9/o reggimento d’assalto paracadutisti Col Moschin della Folgore.

Un nuovo lutto che cade alla vigilia di una giornata considerata “cruciale”, il voto per le elezioni legislative, e caratterizzata da una quantita’ di incidenti in tutto l’Afghanistan, compreso l’Ovest affidato al comando del generale degli alpini Claudio Berto, dove un razzo e’ stato tirato contro una base italiana, sono stati sequestrati candidati e loro sostenitori, sono stati compiuti attentati ai mezzi che trasportavano le schede elettorali e un ordigno rudimentale piazzato su una bicicletta e’ stato fatto esplodere nel cuore di Herat, dove si trovano le due basi principali degli oltre 3.500 soldati italiani.

Il tenente Romani – celibe, con molte missioni in prima linea alle spalle – e’ stato ucciso nel distretto di Bakwa, nella parte orientale della provincia ad altissimo rischio di Farah, ad un anno esatto dalla strage di Kabul, in cui vennero uccisi altri sei para’ della Folgore. Tutto era cominciato di prima mattina, quando un aereo senza pilota Predator dell’Aeronautica militare italiana aveva avvistato quattro persone intente a posizionare una bomba sotto l’asfalto, lungo la strada che collega Farah a Delaram. Sempre il Predator ha ‘seguito’ gli attentatori e segnalato il luogo dove questi si erano rifugiati. A questo punto e’ scattata l’operazione affidata alla ‘Task force 45′, composta dagli uomini delle Forze speciali italiane.

Il team di incursori del 9/o Col Moschin della Folgore e’ partito da Farah a bordo di un elicottero Ch 47, scortato da due elicotteri d’attacco Mangusta. Dopo poco e’ giunto sul posto ed e’ atterrato nei pressi della casa dove si erano nascosti gli insorti. Durante l’incursione, pero’, due dei commandos italiani sono stati centrati da un numero imprecisato di colpi di arma da fuoco. Li hanno soccorsi e portati via, all’ospedale militare da campo di Farah. Le loro condizioni, in un primo momento, non erano state definite gravi (“feriti a una spalla”), anche se uno dei due era un “codice A”. E’ stato sottoposto ad un intervento chirurgico durante il quale ci sarebbero state “complicazioni”. La notizia della sua morte e’ arrivata inattesa a Camp Arena, il quartier generale italiano di Herat. L’altro ferito, un militare di truppa sempre del Col Moschin, non correrebbe invece pericolo.

Sull’operazione non si conoscono altri particolari, cosi’ come ammantata dal riserbo e’ l’attivita’ della Task force 45, di cui si conosce pochissimo. Ignota pure la sorte dei talebani: quello che e’ certo e’ che i due elicotteri Mangusta hanno scaricato contro il loro rifugio l’enorme potenziale di fuoco di cui sono dotati. “Sono tornati scarichi”, ha detto una fonte, e questo rende l’idea di che inferno possa essere stato.

Ma nel settore dell’Afghanistan affidato al comando italiano questa vigilia di elezioni e’ stata caldissima ovunque. Nel cuore di Herat, al bazar della Cittadella, l’antica fortezza che si dice sia stata costruita per volere di Alessandro Magno, alle 18.12 e’ saltata in aria una bicicletta esplosiva: l’ordigno rudimentale e’ stato azionato con un radiocomando. Tre feriti, tutti civili. Poco prima, piu’ o meno nello stesso luogo, alcuni giornalisti italiani stavano facendo interviste in mezzo alle bancarelle e il clima non era del tutto cordiale. “Andra’ a votare domani?”. Il giovane ha risposto ringhiando: “Qui ci sono troppi infedeli”. Un quarto d’ora dopo lo scoppio.

Sempre nella provincia di Herat, ad Adraskan, un candidato alle elezioni di domani e’ stato rapito, stessa sorte subita da 10 sostenitori di un altro candidato e da otto componenti della Commissione elettorale indipendente a Moqur, nella provincia di Badghis, sempre nell’ovest. Nel distretto di Shindand, un convoglio di camion che trasportava schede elettorali e’ stato coinvolto in un attentato: e’ esploso un ordigno, provocando il ferimento del conducente di un mezzo e di due passanti. E’ stato fatto intervenire uno dei team di “reazione rapida” italiani predisposti per garantire la sicurezza delle elezioni: i blindati Freccia sono giunti sul posto e, dopo aver messo in sicurezza l’area, hanno portato il materiale elettorale a destinazione. Ancora a Shindand, un razzo e’ caduto nell’area perimetrale che ospita la base militare italiana, senza provocare ne’ feriti ne’ danni.

In mattinata un’operazione molto delicata di trasporto schede era stata compiuta da un elicottero Ch47 dell’Esercito, scortato da due Mangusta. L’equipaggio, sfidando una tempesta di sabbia, era riuscito ad arrivare nel remoto distretto di Por Chaman, dopo che per giorni l’impresa era fallita. Al comando italiano di Herat erano molto soddisfatti nell’annunciare la riuscita dell’operazione, perche’ solo in quel distretto non erano riusciti ancora a arrivare. Era cominciata bene e nessuno immaginava che non sarebbe stata una buona giornata.

domenica 28 febbraio 2010

DECIMA M.A.S.



Decima Flottiglia MAS, Vittoriosa già sul mare, ora pure sulla terra per l'Onore d'Italia

Alzi la mano chi non ricorda quando l'insegnate di storia, decide per l'interrogazione a sorpresa, e guardandovi quasi beffardo chiede: "Raccontami di D'Annunzio, e della Beffa di Buccari!"

Eh si, ci siamo passati tutti, o quasi. Pochi però ricordano che i piccoli natanti utilizzati in quella particolare azione erano dei MAS, motoscafi armati di due siluri e modificati in modo da superare silenziosamente le difese dei porti austroungarici. Qui tracceremo la storia di uomini e donne che ripresero, per mare e per terra, lo spirito di quegli incursori notturni: ed allora facciamo un pò di storia, partendo dal principio.

Nell'occasione di eventi bellici l'uomo ha sognato di realizzare dei mezzi piccoli ed economici, ma armati ed operanti in modo tale da affondare grandi navi senza la necessità del confronto diretto fra le flotte. Il sogno si realizza all'inizio del XX secolo, con i sommergibili. Allo scoppio della prima guerra mondiale, per combattere questi incursori un cantiere navale veneziano, lo SVAN, fornisce alla Regia Marina il primo MAS (Motobarca Armata Svan)( D'Annunzio interpreterà la sigla con il motto "Memento Audere Semper" ) Che cos'era il MAS ?: un motoscafo armato di cannone da 57mm, 3 mitragliatori e bombe antisommergibile destinato a scorrazzare sui mari in velocità ed agilità, abbastanza piccolo da non costituire bersaglio facile da colpire ma sufficientemente armato per provocare seri danni ai suoi avversari subacquei. Venne così costituita, in seno alla Regia Marina, la prima squadriglia MAS ove la sigla però si muta Motoscafo Anti Sommergibile; un ruolo tipicamente difensivo per un mezzo economico nella costruzione e nell'impiego. Il C.V. Costanza Ciano intuisce ben diverse possibilità per queste veloci imbarcazioni, e riesce ad armarle con due siluri. Che abbia visto giusto lo si vedrà nel giugno 1918, quando Luigi Rizzo, con un solo lancio, affonda al largo di Premuda la corazzata Szent Istvan. Ma Ciano, e l'ammiraglio Paolo Thaon di Revel, sviluppano ulteriormente la loro idea.

I MAS subiscono ulteriori adattamenti che li rendono idonei a forzare i porti avversari. Ossia, navigando lentamente ed in modo silenzioso, si infilano dentro le basi navali avversarie senza farsi scorgere, superando le ostruzioni e riuscendo a non attrarre l'attenzione dei posti di guardia. È nato un nuovo modo di guerreggiare per mare, quello degli assaltatori. I buoni risultati conseguiti nel 1916 fanno in modo che l'anno successivo si studino mezzi non più adattati, come erano i MAS, ma appositi: i primi mezzi d'assalto. All'arsenale di Venezia si provano imbarcazioni a remi e scafi elettrici, dotati di cingoli per superare le ostruzioni. C'è anche un medico militare, il dottor Raffele Paolucci, che si allena a nuotare in acque fredde per lunghe distanze e trainandosi dietro un galleggiante. Nei suoi piani, questo rimorchio simula una carica esplosiva da applicare alla carena della nave avversaria. A Venezia compie i suoi esperimenti anche il Cap. G.N. Raffaele Rossetti; con un operaio militare, di nome Sanna, ha pensato ad un siluro navigante a pelo d'acqua, giudato da un operatore, con a prua delle cariche esplosive da attaccare, grazie ad un magnete, sulle lamiere della nave nemica. Infine il Ten. G.N. Belloni prende in esame, per la prima volta, le operazioni subacquee, pensando a degli incursori trasportati da un sottomarino entro il porto nemico, e che vi fuoriescano sott'acqua per attaccare i possibili bersagli. Nella Grande Guerra solo alcuni di questi mezzi sono provati, con alterno successo. Il miglior risultato lo consegue la "Mignatta", il siluro a lenta corsa inventato da Rossetti. Egli stesso, con Raffaele Paolucci, la notte del 1° novembre 1918 forza il porto di Pola, e riesce ad attaccare una testata esplosiva sotto la corazzata Viribus Unitis. Quindi i due, stremati e scoperti, sono catturati e trasferiti a bordo della stessa unità avversaria. Poco dopo l'ordigno esplode, e la nave affonda. Ma non basta; la mignatta, senza più controllo, prosegue il suo moto sino ad arrestarsi sotto il piroscafo Wien, esplodendo e colando a picco pure questo involontario bersaglio. Il dopoguerra fa dimenticare i mezzi e le tecniche nuove per quasi quindici anni. Nel 1935, per la probabilità di un conflitto con la Gran Bretagna, riprendono gli studi e le proposte. Due ufficiali di Marina, Teseo Tesei ed Elios Toschi, partono dalla mignatta per realizzare un mini sommergibile, con equipaggio di due uomini e propulsione elettrica, armato con una testata esplosiva amovibile, da appendere alle alette antirollio dell'unità scelta come bersaglio. Il nuovo mezzo viene chiamato, per motivi di riservatezza, siluro a lenta corsa. Le sue scarse doti di manovrabilità gli guadagnano il nome con cui è più famoso: Maiale. Lo stesso anno la neonata 1ª Flottiglia MAS è incaricata di organizzare i Mezzi d'Assalto della Regia Marina. Nel 1936 l'Amm. Aimone di Savoia-Aosta inventa gli MTM (Motoscafi da Turismo Modificati), dei barchini veloci con la prua imbottita da 300Kg di esplosivo. Il pilota si lancia ad una velocità di 30 nodi verso il bersaglio, eiettandosi poco prima della collisione assieme ad un galleggiante. Lo scafo, al contatto con la fiancata, è tagliato in due da piccole cariche esplosive. Ad otto metri di profondità detona quella principale. La famiglia dei Mezzi d'Assalto si arricchisce così di un terzo componente oltre ai MAS ed agli SLC.

Poco dopo, iniziano a Livorno, sotto la guida dell'ingegner Belloni, le esperienze dei Guastatori Subacquei, i Gamma, che marciando sul fondo marino debbono trasportare un ordigno sin sotto le navi avversarie. Con lo scoppio del 2° conflitto mondiale i Mezzi d'Assalto iniziano la loro carriera operativa, in particolare dei Maiali, trasportati presso gli obiettivi da sommergibili come lo Scirè, comandato da un "certo" T.V. Junio Valerio Borghese, che diverrà successivamente il Comandante della Xª MAS. Nell'estate del 1940 una spedizione nel porto di Suda (Creta) porta 6 MTM ad affondare l'incrociatore pesante inglese York e a danneggiare la petroliera Pericles. Sorte diversa ottiene l'operazione "B.G.3" su Gibilterra il 15 maggio 1941. Qui la missione è più volte tentata con esito negativo, per una serie di inconvenienti e di contrordini.

Nel marzo del 1941 La 1ª Flottiglia MAS diviene la Xª Flottiglia MAS, un'organizzazione segreta destinata a sperimentare ed usare le nuove armi d'assalto, con Borghese al comando dei mezzi subacquei. Il nome è scelto nel ricordo della Decima Legione, prediletta dall'imperatore Giulio Cesare. Nel luglio del 1941 arriva il disastro con l'operazione "Malta2", progettata in grande stile con l'impiego di MAS, MTM e SLC, per l'attacco al porto della Valletta.

Gli inglesi infatti, oltre che avere installato uno dei primi prototipi di radar nella base, sono in grado di decifrare i messaggi in codice della marina tedesca grazie alla cattura, avvenuta qualche mese prima, di un sommergibile germanico nel cui interno era custodita la macchina decodificatrice "Enigma". Quel sommergibile era stato considerato, dallo stato maggiore tedesco, affondato senza possibilità di recupero, e solo negli anni 70 venne rivelata la verità. Il suo immediato ricupero da parte degli alleati permise loro di primeggiare sui mari per gran parte del conflitto. L'attacco a Malta prende il via il 25 luglio 1941 e trova l'avversario in allarme; il fuoco sui mezzi italiani lascia sul mare 15 morti, 18 prigionieri ed affonda 2 MAS, 2 SLC e 8 MTM. Dopo questa esperienza negativa avviene una riorganizzazione della Decima, dalla quale nasce, per l'intuizione del Com. Eugenio Wolk, una nuova specialità : i "nuotatori d'assalto" o uomini "Gamma", subacquei sprezzanti del pericolo che a nuoto si incaricano di collocare esplosivo sotto le chiglie delle navi nemiche.

Di lì a poco una nuova missione giunge al successo, è la "B.G.4": obiettivo Gibilterra, data il 20 settembre 1941. Gli SLC affondano 2 navi cisterna (la "Fiona Shell" e la "Denbydale") e la motonave "Durban", ed è di nuovo vittoria. Il culmine della gloria viene raggiunto il 18 dicembre 1941 nel porto di Alessandria; l'impiego degli SLC porta al serio danneggiamento della petroliera "Sagona" e di due importanti corazzate, la "Valiant" e la "Queen Elizabeth". I danni impediranno alle navi di rivedere il mare prima della fine del conflitto. Lo stesso Churchill affermerà : "L' Inghilterra ha perso, con la perdita delle navi affondate, la supremazia della flotta in Mediterraneo; prepariamoci a subirne le conseguenze". In tutto il 1942 si susseguono diverse missioni con ottimi risultati, molte con il coinvolgimento degli uomini "Gamma". Il 1° maggio 1943 Junio Valerio Borghese assume il comando dell'intera Xª Flottiglia MAS. Poi arriva il tragico 8 settembre 1943. Se l'armistizio porta le forze armate terrestri ed aeree italiane allo sbando più totale, per la Marina la cosa è diversa. Le navi da battaglia, gli incrociatori, il grosso della flotta è ancora in piena efficienza. E queste navi si consegnano senza combattere ad un avversario divenuto improvvisamente amico. È una resa senza condizioni, mascherata col nome di armistizio. Una bella figura di marinaio, il comandante Carlo Fecia di Cossato, si ucciderà per questo, lasciando in una lettera alla madre, testimonianza di sentimenti condivisi da moltissimi altri marinai. I tedeschi intanto calano dal nord, catturano e disarmano intere divisioni rimaste senza ordini, occupano di fatto l'Italia. Nelle basi della Decima tutto rimane normale. Il comandante Borghese apprende casualmente dell'armistizio. Dopo aver cercato invano ordini, ed aver superato una gravissima crisi morale, decide che continuerà a combattere a fianco dell'alleato tedesco, e con i colori italiani. Quando la Kriegsmarine lo contatta, egli offre la propria alleanza alle sue condizioni e la ottiene con un trattato, siglato il 14 settembre, che permette alla Decima di continuare a combattere al fianco della Germania battendo bandiera italiana, con le proprie uniformi, con propria disciplina ed una relativa, ma ampia, autonomia. Questo ancora prima che si potesse pensare alla nascita della Repubblica Sociale Italiana. Borghese in quei primi giorni non pensa ad altro che a ricostruire il piccolo reparto d'assalto capace, con pochi mezzi, di colpire duro. Accade però qualcosa che lo costringe a rivedere i suoi piani. A La Spezia affluiscono sempre più numerosi volontari per arruolarsi. La fama della formazione, il suo desiderio di combattere per l'onore d'Italia, senza marchi e neppure sponsor politici, fanno in modo che in poco tempo tutte le scuole per le varie specialità navali siano di nuovo attive. Intanto arriva anche buona parte del battaglione Nuotatori Paracadutisti: è una forza d'elité della Marina, madre degli attuali incursori ed allora paragonabile forse solo all' SBS britannico. La Decima diventa anche una forza terrestre. I volontari giungono a ritmo serrato, e alla fine dell'ottobre 1943 nasce un primo battaglione di fanteria di marina, il Maestrale. Un mese dopo viene formato il secondo, il Lupo.

Questo successo e l'autonomia di Borghese (conviene sottolinearlo, la formazione da lui comandata è ufficialmente alleata della Kriegsmarine, quasi fosse una nazione sovrana), proprio mentre la RSI cerca di racimolare uomini per le sue Forze Armate, portano ad una serie di scontri e tentativi di inglobamento. Gli uomini della Decima si sentono dei rivoluzionari, e vi si oppongono sfiorando il colpo di stato. Lo stesso Borghese è arrestato a Brescia, nel febbraio del 1944; ma dopo pochi giorni è rilasciato, e la sua Decima può cominciare la seconda fase di espansione. Ma perchè la Decima è rivoluzionaria? Gli uomini che vi sono accorsi si danno delle regole semplici. Sono lì per l'onore, e coscienti per la gran parte di combattere una guerra persa. Ma vogliono perderla bene, e rinunciando a molti orpelli propri della tradizione militare. Una sola divisa per ogni occasione, ed uguale per tutti, come uguale per tutti è il cibo. Promozioni, solo per merito di guerra. Disciplina autoimposta ma semplice: chi diserta, ruba, saccheggia o commette violenza è passato per le armi. In quei primi mesi l'atmosfera nei battaglioni e nei reparti ricorda molto quella dei soviet, o dei kibbutz. Ed intanto, continuano a giungere giovani da tutta Italia. Nel febbraio 1944 gli alleati sbarcano ad Anzio; la Decima ha il battesimo del fuoco per mare e per terra. Fiumicino ospita una base "segreta", peraltro nota all'avversario perché segnalata da un bandierone enorme, da cui ogni notte i piccoli MTM e SMA (dei motoscafi siluranti con un equipaggio di due persone) partono per gli agguati alla flotta nemica. Molti di questi gusci di noce sono distrutti dal fuoco dell'avversario, qualcuno colpisce. La sproporzione di forze è grossa, ma lo spirito delle azioni è legato ad una frase pronunciata dal comandante Salvatore Todaro: "L'importante non è affondare una nave che il nemico può ricostruire. L'importante è dimostrare al mondo che ci sono degli italiani disposti a rischiare la vita, e se necessario a perderla, per schiantarsi con l'esplosivo contro la nave nemica. Perché per noi la morte in battaglia è una cosa bella, profumata". Questa frase ispira anche lo stemma della formazione: uno scudetto portato con orgoglio al braccio, dove un teschio sorridente tiene tra i denti una rosa. Intanto a marzo il battaglione Maestrale, ribattezzato Barbarigo, entra in linea a Nettuno. Milleduecento ragazzi, poche armi, e tanto coraggio. Lo dicono i loro avversari, gli incursori della First Special Service Force, il miglior reparto speciale alleato della seconda guerra mondiale. Il Barbarigo a Nettuno tra morti, feriti e dispersi subisce circa il 50% di perdite. Nasce un nuovo tipo di eroismo per la Decima, passata in pochissimi giorni da piccolo gruppo scelto di assaltatori (circa 3-400 persone) ad un completo e sfaccettato apparato militare di oltre 18.000 persone. Ma perché così tanti giovani si presentano per l'arruolamento volontario? Come mai questo non succede e non succederà né per l'esercito della R.S.I. né per il ricostituendo Regio Esercito al Sud?

Guardiamo più in dettaglio a quelli che sono gli scopi della Decima Flottiglia M.A.S. dopo l'8 settembre. Borghese ha scelto di rimanere in armi non tanto per favorire l'alleato tedesco, ma per difendere l'Onore d'Italia di fronte al tradimento perpetrato dal Re Vittorio Emanuele III e dal suo stato maggiore nei confronti degli accordi presi. Così scriverà lo stesso Borghese ripensando alla sua scelta : "In ogni guerra, la questione di fondo non è tanto di vincere o di perdere, di vivere o di morire; ma di come si vince, di come si perde, di come si vive, di come si muore. Una guerra si può perdere, ma con dignità e lealtà. La resa ed il tradimento bollano per secoli un popolo davanti al mondo."

Sono finiti i tempi del "vincere e vinceremo", questo lo sanno tutti, ma i volontari vedono nella Decima il mezzo per riscattare il proprio paese dalla vergogna, andando al fronte a combattere contro quelli che per 3 anni sono stati i nemici, e lo devono rimanere, pur nella consapevolezza che la vittoria è oramai un lontano miraggio.

Lo stesso Eisenhower darà ragione a questi uomini scrivendo dopo la fine del conflitto : "La resa dell'Italia fu uno sporco affare. Tutte le nazioni elencano nella loro storia guerre vinte e guerre perse, ma l'Italia è la sola ad aver perduto questa guerra con disonore, salvato solo in parte dal sacrificio dei combattenti della R.S.I.."

Un'altra peculiarità della Decima Flottiglia M.A.S. è l'apoliticità. L'iscrizione a qualsiasi partito è vietata per i marò, dato che si combatte per il proprio paese e non per un leader politico, un'ideologia od un partito. Borghese manderà nelle Brigate Nere un veterano di Nettuno, Rinaldo Dal Fabbro, solo perché si fregia del distintivo di squadrista. E Dal Fabbro capirà, ed andrà a morire al fronte col battaglione d'assalto Forlì. In questo reparto si uniscono volontari appartenenti alle fedi politiche più disparate, compresi quelli nati in famiglie di storico orientamento socialista. Un' esempio per tutti: la terza compagnia "Volontari di Francia" aggregata al Battaglione Fulmine. La formano figli di emigrati, rientrati in patria per difendere l'onore del paese dei propri padri. Ed in molti casi erano dei fuoriusciti politici, ribelli al regime fascista. Nell'autunno del 1944 tocca al Btg. Lupo essere schierato sul fronte del Senio; e i suoi marinai lo giudicano un premio. Poi lo raggiungono gli NP e il Barbarigo. Il Lupo starà in linea per lunghi mesi, contrastando al meglio delle sue possibilità la pressione del nemico e non dimenticandosi mai i principi alla base della Decima. Cosa vogliamo dire con questo ? Ecco un esempio : un giorno, al di là delle trincee sul fiume, un gruppetto di reclute inglesi inesperte passeggia allo scoperto, senza rendersi conto del pericolo, e qualche decina di metri più in là stanno gli uomini della Decima in armi. Un marò, imbracciato il suo M.A.B., spara un raffica in aria: i malcapitati, spaventati, riguadagnano posizioni sicure. Perchè ? Ha sbagliato mira? Come ha potuto non centrare un bersaglio così semplice? Così ha risposto quel marò ad un suo compagno "sarebbe stato facile colpirli, ma ho pensato che anche loro avevano una madre che li aspettava". Con questo non si vuole dire che la Decima praticava la non violenza, ma dimostrare che la forza contro avversari leali era usata solo quando strettamente necessario; colpire quei giovani che non stavano partecipando al fuoco sarebbe stato contrario al codice d'Onore di quel marò e di molti altri come lui.

Non solo questi reparti partecipano alla guerra contro gli alleati anglo americani, è tutto il resto della divisione Decima ad essere schierato a fine '44 sul fronte orientale, per arginare la spinta sempre più insistente delle truppe titine del IX Corpus, e tentare di proteggere la popolazione italiana, spesso trattata barbaramente da queste ultime.

In questo settore la Decima affronta un problema sentito da più parti, comprese alcune formazioni partigiane ed il governo del sud. Per salvaguardare queste terre ed i suoi abitanti, si arriva anche a progetti combinati fra le due Italie, del nord e del sud, come il famoso "Piano De Courten", che prevede una collaborazione nord-sud attraverso l'intermediazione della Decima, e dovrebbe portare allo sbarco di truppe regie nel triestino per rinforzare la difesa della zona. Od ancora alla trattativa con la brigata partigiana "Osoppo", per la nascita di di un reparto misto Decima-Osovani da impiegare attivamente a difesa della frontiera e dei territori orientali. Delle due iniziative purtroppo nessuna si concretizza. Ma la notizia delle trattative basta a scatenare la strage di Porzus, in cui è decimato lo stato maggiore della Brigata Osoppo. ( tra gli uccisi figura anche il fratello di Pier Paolo Pasolini).

Del ciclo operativo nel goriziano restano i sacrifici del Battaglione Fulmine a Tarnova della Selva, ove per tre giorni resiste, arroccato nel paesino, all'attacco del IX Corpus con una proporzione 200 uomini contro oltre mille appoggiati dall'artiglieria; del Battaglione Sagittario accerchiato a Casali Nemci, e liberato dagli NP che caricano allo squillo di una tromba; del Barbarigo che a Chiapovano resiste e ripiega incolume all'assalto di forze almeno doppie delle sue. Di questi e di altri eroi, degli altri battaglioni e dei reparti naviganti che portarono a termine con successo molte azioni contro la flotta alleata nel Tirreno, oggi nessuno parla più. Perché la Decima era formata da rastrellatori, almeno ufficialmente. Già, perché si deve ora aprire un capitolo importante nella storia della Decima Flottiglia M.A.S. : la sua partecipazione alla guerra civile. Una cosa pensiamo sia stata chiarita finora, la Decima non è una forza politicizzata e non viene creata né per fornire manovala0nza ai tedeschi, né per ridare vita ad un governo fascista. Semmai, opera dove possibile, di concerto con la Regia Marina del sud, ed invitiamo a leggere gli ampi resoconti dei colloqui ed incontri segreti avuti, nelle opere del comandante Sergio Nesi e del guardiamarina Bertucci. I suoi fini strategici sono la difesa dei territori orientali, delle grandi strutture industriali e dei porti italiani. Obiettivi, vale la pena ripeterlo, stabiliti assieme ad agenti venuti dal sud; perseguibili, ed in parte raggiunti, proprio grazie all'autonomia ed all'efficienza della Decima. La Decima vuole combattere al fronte per l'Onore d'Italia, ma purtroppo si ritrova coinvolta, suo malgrado, nella guerra civile. Espressamente create per contrastare il movimento partigiano sono altre forze militari o paramilitari, come la Guardia Nazionale Repubblicana, le Brigate Nere, il CARS, il COGU. La Decima Flottiglia M.A.S nel vortice della guerra fratricida tra compatrioti ci si ritrova involontariamente. Ma vuole la Decima combattere contro i partigiani ? Sino all'estate del 1944 decisamente no, e successivamente solo per quanto è necessario a garantire la sua sicurezza, e con molte eccezioni, come è per le citate trattative con l'Osoppo, avvenute fra il settembre ed il dicembre del 1944. Quando la Decima è costretta a prendere l'iniziativa di operazioni antiguerriglia, il Comandante Borghese permette, a chi non è d'accordo, di chiedere il congedo, con regolare saldo della retribuzione. In pochi se ne vanno, e molti restano nella convinzione che non avrebbero comunque operato inutili rastrellamenti e rappresaglie; sbagliando solo in parte. In qualunque località la Decima si rechi, il primo tentativo è sempre quello di contattare i vertici partigiani locali per stabilire un reciproco patto di non belligeranza; "la Decima è qui perché sta attendendo di andare al fronte, quindi se voi non sparate a noi, noi non vi spareremo", questo è il senso degli accordi proposti, e raggiunti con successo in molte zone. E c'è chi si scandalizza nel vedere partigiani e marinai discutere pranzando in una trattoria: succede in Val d'Aosta, nell'estate del '44. Oppure nel sentire che un disertore, colpevole di furto, è stato condannato e giustiziato da una formazione mista di marinai e partigiani; questo capita in Piemonte, nel settembre del 1944. Questa è la norma, con le sue eccezioni. La guerra civile non conosce pietà. Devono però essere ricordati tutti i morti, come gli undici uccisi ad Ozegna, dove il C.C. Bardelli, comandante della Divisone Decima, mentre tenta di raggiungere un'accordo con i partigiani locali, è ucciso senza pietà assieme a parte della sua ridotta scorta. O la cinquantina di NP massacrati a Valdobbiadene nel maggio 1945, dopo essersi arresi a formazioni partigiane. Od ancora i marò del distaccamento di Torino, ammazzati a Sommariva Perno.

Qui ci ferma la pietà, per gli uni e gli altri. Ricordiamo le parole di John Donne: "Nessun uomo è un'isola, chiusa in se stessa, ogni uomo è parte del continente, una parte del tutto. Se una zolla è strappata dal mare, l'Europa è più piccola, così come il promontorio, la casa del tuo amico, la tua stessa casa: la morte d'ogni uomo mi diminuisce, perché io sono parte dell'umanità, e quindi non chiedere mai per chi suona la campana; essa suona per te. ".

La Decima non è stata una forza atta alla crudele repressione quotidiana, senza rispettare anziani, donne e bambini, come si è scritto dalla fine della guerra ad oggi. Molti sono i marò uccisi dopo la fine della guerra, quando deposte le armi su formale promessa partigiana di aver salva la vita, vengono seviziati e trucidati e le loro salme fatte sparire, dopo aver resa impossibile la loro identificazione. Il codice internazionale di guerra considera delitti tali esecuzioni. Ma gli autori vengono esaltati come eroi della resistenza. Il Comandante Borghese, a Milano nel momento cruciale della fine della guerra, esce in divisa per le strade della città. Non fugge, e viene processato. Passa in prigione alcuni mesi prima del processo che gli viene fatto. Viene degradato per aver collaborato con i tedeschi, ma nessuna altra colpa gli viene attribuita. E' costretto ad andarsene quando la giustizia "ingiustizia" vuole imprigionarlo per un supposto e ipotetico "golpe". Muore in esilio.

La Decima è stata in realtà una formazione costituitasi sulle fondamenta eroiche di un gruppo di arditi assaltatori, con l'intenzione di combattere per i proprio paese e la salvaguardia del suo prestigio.

Purtroppo la storia la scrivono i vincitori, ma questo non può impedire che dopo ben 55 anni, piano piano, la verità ed il rispetto per questi Italiani che scelgono di perdere una guerra per espiare una vergogna non loro, ritorni alla luce del giorno

Inno Legione Straniera



Inno Legione Straniera
LE BOUDIN
Tiens, voilà du boudin,
Pour les Alsaciens, les Suisses et les Lorrains,
Pour les Belges, y en a plus,
Ce sont des tireurs au cul.

Au Tonkin, la Légion immortelle A Tuyen-Quang illustra notre drapeau, Héros de Camerone et frères modèles Dormez en paix dans vos tombeaux.

Nos anciens ont su mourir.
Pour la gloire de la Légion.
Nous saurons bien tous périr
Suivant la tradition.

Au cours de nos campagnes lointaines,
Affrontant la fièvre et le feu,
Oublions avec nos peines,
La mort qui nous guette si peu.
Nous, la Légion.

Nous sommes des dégourdis,
Nous sommes des lascars
Des types pas ordinaires.
Nous avons souvent notre cafard,
Nous sommes des légionnaires.

sabato 27 febbraio 2010

FOIBE IO NON SCORDO

FOIBE IO NON SCORDO



Le foibe sono cavità carsiche di origine naturale con un ingresso a strapiombo. È in quelle voragini dell’Istria che fra il 1943 e il 1947 sono gettati, vivi e morti, quasi diecimila italiani.

La prima ondata di violenza esplode subito dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943: in Istria e in Dalmazia i partigiani slavi si vendicano contro i fascisti e gli italiani non comunisti. Torturano, massacrano, affamano e poi gettano nelle foibe circa un migliaio di persone. Li considerano “nemici del popolo”. Ma la violenza aumenta nella primavera del 1945, quando la Jugoslavia occupa Trieste, Gorizia e l’Istria. Le truppe del Maresciallo Tito si scatenano contro gli italiani. A cadere dentro le foibe ci sono fascisti, cattolici, liberaldemocratici, socialisti, uomini di chiesa, donne, anziani e bambini. Lo racconta Graziano Udovisi, l’unica vittima del terrore titino che riuscì ad uscire da una foiba. È una carneficina che testimonia l’odio politico-ideologico e la pulizia etnica voluta da Tito per eliminare dalla futura Jugoslavia i non comunisti. La persecuzione prosegue fino alla primavera del 1947, fino a quando, cioè, viene fissato il confine fra l’Italia e la Jugoslavia. Ma il dramma degli istriani e dei dalmati non finisce.

sabato 6 febbraio 2010

Origini, storia e significato del tricolore Italiano


Duecento anni or sono e precisamente nella primavera del 1796 avvenne un fatto che avrebbe sconvolto la storia della nostra Italia. Un giovane generale francese, Napoleone Bonaparte, penetra dalle Alpi in territorio piemontese, sconfigge rapidamente l'esercito del Regno di Savoia, batte poi quello austriaco, entra a Milano, impone l'armistizio e poi le condizioni di pace all'Imperatore d'Austria. In tale modo pose le premesse per la creazione di un primo Stato veramente italiano, la Repubblica Cisalpina, a cui, come vedremo, ne seguiranno altre, fino alla creazione di una vera e propria Repubblica Italiana, divenuta poi Regno d'Italia.
Questa storia che durò circa vent'anni fu determinante per svegliare la nostra Penisola, nell'esaltazione di una coscienza nazionale e di una coscienza civile.
E quando Bonaparte giungerà a Bologna scriverà a Parigi: "Io qui ho trovato un grande dibattito politico". Si andava, infatti, affermando un vero e proprio movimento che si proponeva anche per l'Italia un assetto costituzionale fondato sugli immortali principi dell'89 e cioè quelli dell'unità ed indivisibilità della nazione accanto a quelli di libertà, eguaglianza e fraternità.
Ma, potrebbe osservare qualcuno: ha una giustificazione fare risalire la storia della nostra bandiera a due secoli or sono, quando lo stato unitario italiano invece risale al 1861 e cioè esiste solo da 136 anni? Sì, rispondiamo, c'è una giustificazione, perché il nostro Risorgimento trova le sue profonde radici proprio negli eventi di quegli ultimi anni del secolo XVIII. Quello che avverrà mezzo secolo dopo, tra il 1848 e il 1870, sarà solo la felice conclusione di un processo storico iniziatosi nel periodo che in questa sede ci interessa e nel quale si formò una coscienza nazionale per la prima volta: fu il tempo delle cosiddette Repubbliche giacobine che sorsero in Italia quali la Cispadana, la Cisalpina, la Ligure, la Romana, la gloriosa Napoletana; infine la Repubblica italiana. Orbene, l'origine della bandiera bianco, rosso e verde va fatta risalire proprio alla Repubblica Cispadana, la prima in ordine cronologico e forse proprio per questo la più interessante,anche dal punto di vista del diritto costituzionale.
Giuseppe Compagnoni, originario di Lugo e deputato di Ferrara, era un uomo di cultura che prese parte attiva alla vita politica nel periodo napoleonico ed era appunto il Segretario Generale della Repubblica Cispadana. Proprio su sua proposta, il 7 gennaio 1797 - duecento anni or sono - a Reggio Emilia i 110 rappresentanti delle province di Bologna, Ferrara, Reggio e Modena, proclamarono la Bandiera Tricolore, bianco, rosso e verde, simbolo e vessillo di quella Repubblica Cispadana che avevano fondata nell'anno precedente. Il giorno prima, su proposta del deputato Aldebrandi, si era stabilito che lo stemma della nuova Repubblica fosse un turcasso con quattro frecce e con i fori per eventuali altre per esprimere il desiderio di un'unione più vasta. E nei giorni seguenti fu decretato che "in tutti i luoghi ove si alza insegna di sovranità venga piantata la bandiera tricolore verde, rossa e bianca con l'impronta di turcasso".
L'innovazione fu ritenuta talmente notevole e straordinaria che il Comitato di Governo espresse al Congresso, in data 23 gennaio, qualche dubbio sull'opportunità di procedere al cambiamento dello stemma e della Bandiera e di "somministrare gli opportuni chiarimenti", temendo in sostanza di turbare i rapporti con l'autorità francese di occupazione! Ma la bandiera fu adottata all'unanimità: i colori erano posti in senso orizzontale: quello rosso, il primo in alto, portava l'iscrizione: libertà-eguaglianza; quello bianco, nel mezzo, conteneva lo stemma con il turcasso rosso e le iniziali R. e C. (Repubblica Cispadana); quello verde, in basso, su cui era scritto per le bandiere militari il nominativo dei reparti. Così per la prima volta il Tricolore diveniva la bandiera di uno Stato Italiano. La scelta dei colori fu certamente ispirata a quelli della bandiera francese, adottata a sua volta qualche anno prima, il 15 luglio 1789 a Parigi, per decisione del Comitato rivoluzionario, dalla milizia parigina, aggiungendo al bianco della vecchia bandiera borbonica il rosso e il blu dello stemma del Municipio di Parigi. Nel 1792 il Tricolore bianco, rosso e blu diveniva definitivamente la bandiera nazionale di Francia. Dunque il Tricolore nostro si volle simile a quello francese. Ma perché, nel volere giustamente apportare la differenza di un solo colore, si preferì il verde?
Probabilmente influirono su questa decisione gli avvenimenti accaduti in Bologna tre anni prima e cioè nell'autunno del 1794.
In quei giorni due giovani studenti, Luigi Zamboni (cui è dedicata la via di Bologna che conduce dalle Due Torri all'Università) e Giovanni Battista De Rolandis, si erano prefissi di organizzare una rivoluzione per ridare al Comune di Bologna l'antica indipendenza perduta con la sudditanza agli Stati della Chiesa. A tal fine furono propagate idee liberali, predisposte armi e diffuse coccarde bianco, rosso e verdi.
La sommossa, nella notte del 13 dicembre, fallì e i due studenti furono scoperti e catturati dalla polizia pontificia, insieme ad altri diciannove cittadini.
Avviato il processo, il 19 agosto 1795, Luigi Zamboni fu trovato morto nella cella denominata "Inferno" dove era rinchiuso insieme con due criminali, che lo avrebbero strangolato per ordine espresso della polizia. L'altro studente Giovanni Battista De Rolandis fu condannato a morte ed impiccato il 23 aprile 1796. Orbene, la scelta del colore verde da parte dello Zamboni sarebbe stata determinata, secondo alcuni storici, dal fatto che tale colore è il simbolo della speranza e "l'Italia era solo una speranza" come scrisse il Castagna nel suo: "Commento allo Statuto Italiano"; secondo altri perché il bianco, rosso e verde erano i tre colori evidenziati nel rito di iniziazione di alcune logge massoniche italiane. Ma in verità al riguardo non esiste alcuna prova sicura e documentata.
Un altro filone di tradizione è da rinvenirsi a Milano nel 1796, allorché vennero formate sia la Guardia Nazionale Milanese, sia la Legione lombarda.
Ma torniamo alla Repubblica Cispadana, che abbiamo indicato come il primo Stato che adottò in Italia il Tricolore. Sei mesi dopo (era il 18 luglio), allorché Napoleone diede il suo consenso all'unificazione della Lombardia con l'Emilia Romagna, avvenne la fusione delle Repubbliche Transpadana e Cispadana in un solo Stato: la Repubblica Cisalpina, con un Parlamento, un esercito di ben 25.000 uomini, con capitale Milano e con bandiera il Tricolore, sostanzialmente eguale a quello della Repubblica Cispadana. Successivamente, nel gennaio 1802, scomparve definitivamente la Repubblica Cisalpina, perché fu proclamata la Repubblica Italiana. Ottocento deputati, giunti a Milano da tante parti d'Italia, proclamarono tale nuovo vasto Stato. Presidente della Repubblica Italiana fu Napoleone medesimo, mentre vicepresidente fu Francesco Melzi d'Eril. E' da notare che la forma della bandiera Tricolore fu un quadrato a fondo rosso, in cui era inserito un rombo a fondo bianco, in cui era inserito, a sua volta, un quadrato a fondo verde.
Neanche la Repubblica Italiana ebbe lunga vita perché, in conseguenza della sua evoluzione monarchica, Napoleone, incoronato imperatore dei francesi a Parigi il 2 dicembre 1804, divenne anche re d'Italia, cingendo nel Duomo di Milano l'antica corona ferrea il 26 maggio 1805.
Sorse così il Regno d'Italia, che comprendeva in sostanza tutta l'Italia settentrionale e centrale e di cui fu Viceré Eugenio Beauharnais, figlio della prima moglie del Bonaparte. Il Tricolore fu confermato come bandiera, dunque, del Regno che durò sino al 1815 e cioè sino alla fine del periodo napoleonico. La bandiera monarchica fu un po’ diversa da quella repubblicana in quanto il rombo bianco al centro del vessillo delimitava quattro triangoli di cui due verdi e due rossi. Sui campi d'Europa le bandiere bianco rosso e verdi furono spiegate accanto a quelle francesi dalle corpose formazioni italiane che fecero parte della "Grande Armée". Queste truppe, generali, ufficiali e soldati si coprirono di gloria nella campagna di Russia e in particolare a Maloiaroslavez (24 ottobre 1812), ad Ocmiana e a Borodino, come pure il 16 ottobre 1813 nella battaglia cosiddetta delle nazioni a Lipsia.
A Mosca il primo ad arrivare fu il colonnello Ottavio Tapputi, pugliese, alla testa dei reparti italiani! Quel sangue in terra straniera non fu inutile alla nostra futura unità perché fu sparso all'ombra delle bandiere tricolori e perché i superstiti divennero i primi protagonisti del movimento nazionale per l'indipendenza d'Italia.
Finita l'epoca napoleonica il Tricolore scomparve dalla scena ufficiale militare e politica d'Europa, mentre, con il Congresso di Vienna e la firma della Santa Alleanza, vi fu il ritorno dei vecchi sovrani assolutisti in Europa e in Italia. Ma, mentre nessuno degli otto Stati in cui fu divisa la penisola mantenne il Tricolore, la restaurazione non lo ammainò nei cuori dei patrioti. Così per circa trent'anni e sino al 1848 il vessillo tricolore non fu la bandiera ufficiale d'alcuno Stato, ma divenne il simbolo di tutti coloro che si batterono per l'unità, l'indipendenza e la libertà d'Italia. Così nei moti del 1817 a Macerata, in quelli del 1820 a Nola, a Napoli, a Messina e a Palermo, durante i processi lombardi contro Maroncelli, Pellico e Confalonieri, e nella rivolta in Piemonte nel 1821, così nelle insurrezioni e condanne a Modena e nel Cilento; così nei moti del 1831 in Romagna, nelle Marche e un po’ dovunque nella Penisola. E il giuramento della Giovine Italia di Giuseppe Mazzini, che nel 1833 aveva ben 60.000 iscritti, veniva pronunciato davanti al Tricolore, issato in tutti i tentativi insurrezionali degli anni trenta.
E come non ricordare Goffredo Mameli che, prima di innalzarla sulle pianure lombarde e sulle mura di Roma, ne fu l'alfiere in tutte le manifestazioni patriottiche nelle vie di Genova? Il 10 dicembre 1847, giornata rimasta nella storia del Risorgimento perché la dimostrazione popolare genovese fu la più grande che mai si fosse avuta fino ad allora in Italia, gli organizzatori avevano all'inizio invitato il ventenne Mameli a togliere via il Tricolore per prudenza, ma non avevano ottenuto il suo consenso. E così il corteo di venticinquemila genovesi si avviò dietro alla bandiera, sfilò davanti al mortaio di Portoria, dove un secolo prima era avvenuto l'episodio di Balilla. E risuonò il "Canto degli Italiani" composto poche settimane prima, che diverrà poi l'Inno di Mameli.
E giungiamo così al 1848, che il Carducci ricorderà come "l'anno dei portenti, primavera della Patria". Sarebbe troppo bello descrivere quegli eventi: battaglie sanguinose, cortei, manifestazioni, vittorie e sconfitte; sacrifici e martiri! Dobbiamo limitarci alla storia della nostra bandiera che in quell'anno fatale ebbe una svolta decisiva. Orbene, il 4 marzo Carlo Alberto di Savoia, Re di Sardegna, promulgava lo Statuto del Regno, che trasformava un regime assolutistico in un regime costituzionale. L'art. 77 della Carta così stabiliva: "Lo Stato conserva la sua bandiera: e la coccarda azzurra è la sola nazionale". La bandiera era in sostanza costituita dallo stemma sabaudo in campo azzurro. Ma il 23 marzo Carlo Alberto entrava in guerra contro l'Austria (Prima Guerra d'Indipendenza) e nel proclama affermava: "E per voler meglio dimostrare con segni esteriori il sentimento dell'unione italiana, vogliamo che le nostre truppe entrando nel territorio della Lombardia e della Venezia portino lo scudo di Savoia sovrapposto alla bandiera tricolore italiana". Da quel giorno, la bandiera bianco rosso e verde diverrà il vessillo del Regno di Sardegna, che lo conserverà insieme allo Statuto anche dopo la definitiva sconfitta del 1849, mentre nel resto della Penisola venivano ripristinate le vecchie bandiere. Ed il 9 febbraio 1849 veniva proclamata la Repubblica Romana, retta dai Triumviri Mazzini, Saffi ed Armellini: bandiera della Repubblica fu proclamato il Tricolore! E per cinque mesi Roma resistette all'assedio dei francesi, superiori di numero e di mezzi.
Attorno al Tricolore e a Garibaldi, 14.000 uomini combatterono sanguinosamente sul Gianicolo: il fior fiore della gioventù di tutta Italia vi partecipò e molti vi morirono, tra cui Goffredo Mameli di 22 anni, Luciano Manara, Emilio Morosini, Enrico Dandolo e tanti altri. Ed infine a Venezia il Tricolore, con al centro il Leone di S.Marco, sventolava sulla Repubblica dal marzo 1848; sarà ammainato solo per fame e colera e per gli spietati bombardamenti austriaci dell'anno successivo.
Segue, poi, il cosiddetto decennio di preparazione, di cui Camillo Benso conte di Cavour fu il deus ex machina, costellato ancora di martiri e di eroi, da quelli di Belfiore a quelli di Sapri, fino alla Seconda Guerra d'Indipendenza. E come potere riassumere l'esaltazione del Tricolore nella Spedizione dei Mille con cui Garibaldi conquistò la Sicilia, la Calabria, la Basilicata, la Puglia, la Campania e l'Abruzzo, offrendo così al Re più di un terzo della Penisola? Il Tricolore fu innalzato su tutte le torri civiche e i campanili del Sud e trascinò le Camicie Rosse da Calatafimi alla grande battaglia campale del Volturno.
Con la legge del 17 maggio 1861 n. 4671 veniva proclamato il Regno d'Italia, di cui la bandiera tricolore diveniva naturalmente il vessillo nazionale. Così quel tricolore che negli anni del nostro Risorgimento era stato cantato dai poeti e dal popolo di tutte le parti della Penisola, cucito e ricamato nel segreto dei grandi palazzi e delle case più umili dalle donne italiane, glorificato come simbolo della rivoluzione nazionale, santificato con il sacrificio supremo nelle battaglie, nelle sommosse e sui patiboli, diveniva la bandiera dell'Italia Unita e da allora la sua storia si confonderà con quella, ben più complessa, della Nazione. Così durante la 3a Guerra d'Indipendenza del 1866, al termine della quale il Veneto fu unito all'Italia, purtroppo il nuovo Regno riportò due sconfitte militari assai gravi: la prima sulle alture di Custoza il 24 giugno e la seconda il 20 luglio successivo nel mare di Lissa.
A Lissa si disse che la bandiera della nave "Re d'Italia" era stata catturata dal nemico. Ed invece la bandiera, inalberata, era colata a picco con la nave. Era avvenuto, infatti, che la nave era stata raggiunta e speronata dalla nave austriaca "Ferdinando Max" e quando incominciò ad inclinarsi su un fianco i marinai nemici avrebbero potuto impossessarsi del vessillo. Ma lo impedì il guardiamarina Razzetti, che ammainò la bandiera finché non fu scalato il ponte della nave austriaca e poi la inalberò nuovamente fino al fatale inabissamento!
Quattro anni dopo, il 20 settembre 1870, dopo un breve scontro in cui complessivamente vi furono 80 morti e 200 feriti, l'esercito italiano entrava a Roma. Cadeva così il millenario potere temporale dei Papi. Orbene alle tre del pomeriggio di quella storica giornata il 2° battaglione del 39° reggimento Fanteria, preceduto da fanfare, salì sul Campidoglio e si dispose in quadrato nella piazza. Al suono della Marcia Reale e fra le acclamazioni popolari, il sottotenente Lugli appoggiava la Bandiera ad un braccio della statua di Marco Aurelio, lasciandola poi inalberata, con la guardia d'onore del battaglione stesso.
Nei decenni successivi il Tricolore, testimone di coraggio e di ardimento, sventolerà al caldo sole africano: il 10 marzo 1882 ad Assab (Somalia), il 5 febbraio 1885 a Massaua (Eritrea) e tra l'88 e l'89 nella Dancalia, a Cheren e ad Asmara. Non mancarono gravi sconfitte: Dogali, Amba Alagi, Macallè e soprattutto Adua il 1° marzo 1896, ma ovunque rifulse l'estenuato e disperato valore dei nostri soldati attorno alle proprie bandiere.
E giungiamo così alla guerra 1915-'18: la grande guerra fu per estensione e per violenza, per numero dei combattenti, come dei caduti, dei dispersi, dei feriti e dei mutilati, nonché per la sua durata, il conflitto più terribile che fino ad allora si fosse mai scatenato nel nostro pianeta.
L'Italia ne uscì vittoriosa, ma stremata dal punto di vista psicologico, sociale e materiale. Il Tricolore, issato a Trento e a Trieste, raggiungeva così i confini naturali dell'Italia. Immensi e sovrumani furono i sacrifici dei nostri soldati nei lunghi anni di trincea, di avanzate cruente e di ritirate sconvolgenti, sulle montagne nevose e lungo i fiumi, su un fronte lungo ottocento chilometri dallo Stelvio all'Adriatico. Gli eroismi individuali e l'abnegazione di interi reparti rifulsero in mille e mille episodi. I nomi delle brigate e dei reggimenti, come i nomi dei monti e dei centri ove più aspri furono i combattimenti sono impressi nel cuore e nella mente di coloro che come chi vi parla nacquero pochi anni dopo la vittoria del 1918 e ne sentirono l'eco nelle proprie famiglie e nella scuola. E al centro di tutto vi era sempre il Tricolore.
Basta rileggere le parole con cui Arnaldo Fraccaroli e Sem Benelli descrissero l'arrivo dei primi bersaglieri a Trieste, sbarcati dal cacciatorpediniere "Audace", e quelle con cui Guelfo Civinini ricordava la prima alba di Trento italiana con gli alpini che durante la notte avevano risalito la valle dell'Adige! Ma anche nella seconda guerra mondiale attorno al Tricolore rifulsero il valore, il sacrificio e l'eroismo individuale e collettivo della nostra gioventù sulle ambe e nel deserto dell'Africa, sulle montagne della Grecia, nel fango e nel gelo delle pianure russe, sul mare e nel cielo. E quindi anche di questa guerra drammatica e tragica sotto vari aspetti politici e militari vorremmo ricordare due episodi che coinvolgono direttamente la nostra bandiera. Che dire dell'epopea di Giarabub, oasi isolata nell'interno libico, difesa da un piccolo presidio agli ordini del colonnello Castagna? Dopo dieci mesi di assedio, il 21 marzo 1941 le truppe inglesi ed australiane riuscirono ad avere ragione della nostra resistenza.
Allora il colonnello ordinò che la Bandiera che sventolava sulla torre della ridotta Mercutti venisse bruciata al cospetto del nemico mentre risuonava il grido dei superstiti: "Viva l'Italia".
E il 23 dicembre 1942 ad Arbusow in Russia, durante la terribile ritirata dal Don al Donez, mentre la morsa dei corazzati sovietici stava per stringersi sulla divisione Torino, il carabiniere Giuseppe Plado Mosca, afferrata una bandiera e inforcato un cavallo, si lanciava da solo contro il nemico trascinando migliaia di uomini in un travolgente assalto all'arma bianca. Scomparve nelle fiamme della battaglia, guadagnandosi la medaglia d'oro al Valor Militare alla Memoria.
Ma la storia di un popolo non è, fortunatamente, caratterizzata solo dalle guerre, ma è illuminata anche da lunghi periodi di pace. Orbene, anche per tali periodi la storia tout-court si confonde nel suo perenne divenire con quella della Bandiera Nazionale. E così il nostro Tricolore ha sventolato e continua a sventolare sulle conquiste civili, scientifiche e sportive; nelle nostre ricorrenze e festività; o sui tetti completati delle nuove case; nelle nostre missioni militari di pace, di solidarietà e di civiltà. E anche di questo ampio e variegato panorama vorrei ricordare qualche esempio: Luigi di Savona, Duca degli Abruzzi, che il 31 luglio 1897 conficcava sulla vetta del Sant'Elia in Alaska (m. 5.514) la piccozza col vessillo tricolore. Erano presenti Umberto Cagni, Francesco Gonella e Vittorio Sella e le guide valdostane Petigax e Maquignaz; gridarono tutti "Viva l'Italia". E il 18 aprile 1906 lo stesso principe sabaudo innalzerà il Tricolore, donatogli dalla Regina Margherita, sulla cima del Ruvenzori a circa 5.000 metri. E vent'anni dopo Umberto Nobile, il 12 maggio 1926 e poi il 24 maggio 1928, lancerà sul Polo Nord, rispettivamente dai dirigibili "Norge" e "Italia", la bandiera tricolore. Egli scrisse "La seguii cogli occhi, finché non la vidi adagiarsi sui ghiacci. Era un pezzo di stoffa, ma quel pezzo di stoffa era l'Italia lontana". E ai giorni nostri, il 31 luglio 1954, una pattuglia di coraggiosi, capitanati da Ardito Desio, conquistava la vetta del K2 a quota m. 8.611 e la Bandiera Tricolore era attaccata alla piccozza del capocordata. L'avrebbe vegliata lo spirito di Mario Pichoz, la guida di Courmayeur!
E intanto la nostra Costituzione, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, stabiliva all'art. 12: "La bandiera della Repubblica è il Tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni".
Nonostante qualche voce isolata, se non contraria almeno incerta, l'inserimento in Costituzione di tale disposizione fu ritenuto opportuno da tutti in sede di Assemblea Costituente. Fu solo sollevata la questione se nel mezzo della banda centrale bianca dovesse porsi in avvenire uno stemma. L'Onorevole Meucci Ruini, Presidente della Commissione che aveva redatto il progetto costituzionale, affermò: "La Commissione si pronuncia intanto pel tricolore puro e schietto, semplice e nudo, quale fu alle origini e lo evocò e lo baciò, cinquant'anni fa, il Carducci: e così deve essere la bandiera dell'Italia repubblicana".
Infatti cento anni or sono, nel primo centenario del Tricolore, il 7 gennaio 1897, fu commemorato proprio con un discorso a Reggio Emilia del grande poeta Giosuè Carducci, il quale si rivolse alla Bandiera con queste parole: "Sii benedetta! benedetta nell'immacolata origine, benedetta nella via di prove e di sventure per cui immacolata ancora procedesti, benedetta nella battaglia e nella vittoria, ora e sempre nei secoli!". Ed aggiunse: "quei colori parlarono alle anime generose e gentili, con le ispirazioni e gli effetti delle virtù onde la patria sta e si angusta: il bianco, la fede serena alle idee che fanno divina l'anima nella costanza dei savi; il verde, la perpetua rifioritura della speranza a frutto di bene della gioventù dei poeti; il rosso, la passione ed il sangue dei martiri e degli eroi!".
Ora, nel bicentenario e oltre, possiamo, dobbiamo, vogliamo rinnovare questi sentimenti e queste espressioni del poeta, nella speranza che nulla venga mai a turbare il rispetto e l'amore del nostro popolo per la sua bandiera nazionale!

Argomento estratto da:http://www.labandiera.com/nostro_tricol.htm quì potrai vedere anche le varie bandiere che hanno attraversato la storia d'Italia.